Emanuele Giuffrida

La realtà delle cose invisibili

Pittore poetico, Emanuele Giuffrida, racconta con l’aiuto dei pennelli la sua giovane storia. Nato a Gela in Provincia di Caltanisetta, 35 anni fa, è un uomo che ama gustare ogni istante della vita. Introverso, silenzioso, fa ricadere le sue umane ossessioni su tele e fogli di carta che invadono il piccolo atelier che si è ritagliato tra le mura domestiche, protagoniste non occasionali dei suoi primi lavori come Kitchen III e The student’s. A diventare pretesto per la pennellata sono una cucina nel suo angolo più scarno; la mobilia improvvisata e ridotta all’essenziale, pochi oggetti, che riescono comunque a fare disordine. Piccole tavole dove vengono narrate scene di rituali domestici condivisi solo con le persone a lui più care e dove ogni cosa pare, però, avere il sapore di un rito. La prima volta che ci siamo incontrati eravamo nella sua terra, la Sicilia, invasa da un insolito freddo polare. Abbiamo camminato lungo le vie e i gradini che portano alla Cattedrale di Caltagirone parlando di pittura, di ricerca e della sua voglia di costruire un proprio codice espressivo. Un codice che nasce nelle viscere della propria vita vissuta, senza bisogno di attingere ad immagini di riviste: gli bastano le fotografie scattate con i suoi occhi da bambino, in una cittadina di Provincia tra le più difficili dove, negli anni novanta, mentre Milano era da “bere”, Gela era da “morire” ed eri fortunato se non finivi a terra steso sotto un lenzuolo bianco. Io cercavo di capire sempre più quale fosse la nascita del suo voler essere pittore, la nascita di quelle urla di silenzio e di quei colori spenti, quasi retrò, che ritrovavo ripetutamente nei suoi lavori e lui mi disse “Sai Rischa, quando vivi a Gela e non vedi i colori, i colori poi non possono fare parte della tua vita”. Rimasi in silenzio e capii che quello che raccontava Emanuele non era solo una storia tra le tante, che ognuno di noi potrebbe raccontare, ma era una presa di coscienza della difficoltà di non riuscire ad assaporare le cose semplici e per lui straordinarie che raramente da piccolo gli erano capitate, come quella, ad esempio, di avvicinarsi ad un tavolo e riuscire per una volta a giocare semplicemente a biliardo. Impossibile non pensare al Caffè di notte di Vincent Van Gogh, dove con un grande biliardo al centro della stanza, nella sala vuota e triste, ha “cercato di esprimere l’idea che il caffè è un posto in cui ci si può rovinare, diventar pazzi, commettere dei crimini.” Il tempo non ha mutato il destino di questo luogo neanche nelle opere di Emanuele. La sala giochi, infatti, viene ricostruita nell’immaginario dell’artista come luogo di assenza, di buio; separazione più che aggregazione. Un posto dove non ci sono palle o stecche per giocare, perché a questi ragazzi, giocare non è permesso. Nel nostro mondo sempre più spesso le cose sono diverse da come appaiono, la gente preferisce apparire più che essere, sembra di vivere tutti sotto il tendone di un circo: belli, spensierati e divertiti durante lo spettacolo, tremendi e bugiardi quando si spengono le luci.
Ed è proprio questo il tema che ritrovo oggi nell’unico dipinto protagonista della mostra Outside a Modica. La periferia palermitana, dove sosta un circo con la propria carovana, è stato il pretesto, come in un film di Fellini, per raccontare l’inarrestabile decadenza della vita. Il buio, vero protagonista di questo dipinto, è disturbato dalla luce di una piccola luna piena, che alla sinistra dello spettatore sembra voler illuminare storie che non si devono raccontare, di un paese che nessuno sembra voler conoscere. Un paese costellato di tante piccole figure umane, nude o seminude, che con un sottile, quasi invisibile filo, tengono al collo i segreti di un compagno che si credeva amico. E non ci dobbiamo sorprendere se al centro della tela scopriamo, tra i tanti cammelli che indifferenti si sfamano dopo una giornata di duro lavoro, la sagoma di una donnina dall’aria allucinata. Attirerà la nostra attenzione, e forse ci farà sorridere, il riflesso di luce che illumina il sedere di una bestia riversa a terra, ma non abbiamo tempo di soffermarci, perché il nostro sguardo, poco più in là, affonda in una fila di piccoli uomini che attendono il proprio turno, non per comprare il biglietto d’ingresso allo spettacolo, ma per giocarsi tutto alle slot-machine. Sulla destra un enorme tendone, caratterizzato da spesse pennellate bianche, ci rimanda, in un gioco di luci, alle due figure che appaiono poco per volta in primo piano e che scopriamo poi definite nei disegni preparatori che completano la mostra. Emanuele crea dipinti estremamente realistici, caratterizzati da una grande cura dei dettagli, mettendo a nudo i propri sentimenti che a noi potrebbero sembrare marginali. I personaggi del suo grande circo sembrano quasi dei manichini, dei pretesti, quasi inanimati protagonisti di un mondo fatto di cose più che di persone, voci di un ambiente, stato d’animo di un mondo. Mentre il teatro della vita è fatto di parole, di gioie, di emozioni e di pensieri, il suo circo sembra raccontare un mondo fatto di immagini, tant’è che uscendo dallo spazio della mostra, si ha la sensazione di essere svuotati allo stesso modo di quando si torna a casa dopo aver assistito al peggior film di paura di Hitchcock. I ricordi riaffiorano alla mente di chi, come me da bambina, sognava di andare al circo per vedere lo spettacolo degli animali, spettacolo che oggi si è trasformato nel drammatico spettacolo di una società fortemente disagiata.
Il Circo Fuori è il regno del conformismo e della rassegnazione, una performance inconscia e inconsapevole che ciclicamente viene vissuta. Scriveva Marcello Gallian su L’Interplanetario nel 1928: “Non so immaginare cosa più bella e più grande nella vita di quaggiù che un Circo Reale. Nulla di più umano e di più tragico se non esistesse un Circo nel mondo […]. Non parlo oggi del Circo come spettacolo teatrale, ma della vita, dei costumi, delle abitudini, delle convenzioni, del linguaggio della gente che popola il circo. Se dai pianeti lontani partisse un’inchiesta per sapere i segreti della Terra e della gente che la abita, per investigare sulle virtù e sui privilegi e sulle caratteristiche della Terra e degli uomini e in che cosa si differenziano da tutti gli altri mondi seminati nell’Universo, io presenterei in sintesi l’essenza del nostro mondo e dei suoi abitatori: il Circo.”

Emanuele che per quest’opera ha lavorato in modo ossessivo, quasi in piena crisi di Stendhal, senza pensare ad altro, il giorno stesso dell’inaugurazione, mentre sua moglie gli preparava un intruglio fatto con uova per gli ultimi ritocchi alla tela, mi sussurra all’orecchio: “Avrei voluto farlo più grande, forse ho bisogno di lavorarci ancora, credo due mesi basteranno”.

Rischa Paterlini

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